Samsara, la fotografia si fa voce della vita

Ossia: una sequenza fotografica di 102 minuti contro la mercificazione dell’essere umano e ciò che lo circonda

La seconda opera di Fricke si muove su coordinate differenti rispetto a Baraka. A metterli uno accanto all’altro parrebbe che il regista abbia girato il Samsara quasi a dire: visto che non avete ben inteso il messaggio del primo film, provo a spiegarvelo meglio. Se in Baraka quella che potremmo chiamare ‘critica sociale’ è sottintesa o appena accennata, in Samsara è esplicita e le immagini bel lo dicono.

Il filo rosso che unisce i due è la incredibile qualità delle immagini. E per qualità non si intende solo il dato tecnico, reso ancora dalla scelta del 70 mm, quanto proprio la fotografia. I tagli le inquadrature, i racconti per immagini. Si tratta di quel tipo di immagini che i grandi fotografi cercano e realizzano. Sono quelle immagini che lasciano e lasceranno sempre a bocca aperta chi le osserva.

Samsara tiene fede a quello che il significato del termine, ossia: la situazione nella quale si trova l’essere umano ogni giorno e dalla quale può uscire attraverso un percorso di crescita spirituale. In particolare quella che viene anche chiamata dottrina del samsara conosce sfumature diverse a seconda della religione alla quale si fa riferimento.

Il film è un viaggio in quella che è la vita come noi la conosciamo. La struttura del lungometraggio è circolare, finisce come comincia. Il tutto filtrato dal rapporto col divino inteso in senso lato. Quello che Samsara provoca, così come Baraka, è emozione nel senso di cocente partecipazione. Lo spettatore si sente pienamente coinvolto dalle immagini che scorrono.

O perché riconosce qualche luogo o perché sente un atavico richiamo verso alcune situazioni narrate. Il senso della pellicola è rappresentato dal mandala che i monaci tibetani costruiscono e che sul finale, come tradizione, distruggono. Nulla è eterno, tutto è transitorio, nulla si crea né si distrugge ma si trasforma.

E la trasformazione, l’evoluzione avanza per tutto il film. Dalla pace dei monasteri buddhisti fino alle affollate sale dei fast food. E tutto è collegato. Mano a mano che la pellicola avanza si sente il disagio di qualcosa che non va. Non c’è giudizio nel film.

C’è solo lo stimolo al ragionamento, alla presa di coscienza del nostro posto nel mondo e delle conseguenza di quello che facciamo. E sono le immagini a parlare. Non ci sono dialoghi, come non ce n’erano in Baraka, solo musica che fa da voce a quello che scorre sullo schermo.

È la forza delle fotografie, perché di questo si tratta, che ‘sconvolge’ lo spettatore. La fotografia, ogni sequenza è da questa dominata. È innegabile che ogni immagine è uno scatto. Se si fermasse il film in un punto qualunque, si potrebbe tranquillamente stampare il frame in grande formato.

E questo fin dall’inizio. Il messaggio che passa e che il regista in un certo senso ‘urla’, è che l’uomo deve capire di far parte di un contesto, di un ambiente di cui fa parte non solo il lato materiale ma anche, se non soprattutto, quello spirituale con il quale ci si confronta sempre, volenti o nolenti.

Descrivere Samsara, come descrivere Baraka, è impossibile. Si devono vedere, in silenzio lasciando che le emozioni salgano e si manifestino. Non le si deve fermare, non le si deve combatter. Anche perché non le si può contrastare, a meno di essere delle persone prive di coscienza e sensibilità.

In entrambe i casi, in maniera più o meno esplicita, sono due film ‘contro’. Samsara in particolare è contro la mercificazione in senso ampio. Contro quella della natura, degli animali, soprattutto delle donne. E’ molto crudo il passaggio dove ragazze vengono paragonate a carne da macello e bambole senz’anima.

Per chi fotografa, questi film sono un vademecum inesauribile sia a livello pratico che teorico. Pratico per quel riguarda la realizzazione degli scatti, teorico invece circa la costruzione di una storia per immagini. Per chi non fotografa è un incredibile viaggio.

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