Africa, Gli anonimi della fede, il viaggio

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Mettere in ordine due mesi densi, intensi e affastellanti come quelli impegnati dalla documentazione del progetto di Moto for peace ‘Gli anonimi della fede’, non è cosa semplice. Sessanta giorni, 14.000 km, tantissimi gli avvenimenti, ancor di più la fatica, infinite le risate e il cameratismo scaturito tra 17 persone molte delle quali si sono conosciute direttamente sul posto. Che non sarebbe stato un viaggio semplice è stato chiaro a tutti ancor prima della partenza dalle rispettive nazioni. A sottolinearlo ci hanno pensato le difficoltà incontrate fin dai primi giorni a Città del Capo. Problematiche burocratiche hanno fatto perdere quasi una settimana ed hanno rischiato di farne buttar via un’altra. Un primo intoppo che, però, ha messo subito in chiaro la pasta di cui era composto il team. Una pasta che ha accompagnato per tutte le 8 settimane successive. Una pasta che ha permesso di superare momenti ben più duri a livello fisico e umano. Una pasta grazie alla quale sono state affrontate sempre con ironia e buon umore le lunghissime tappe iniziali da 700 e più km l’una. Marce ‘forzate’ per cercare di rispettare i tempi e recuperare i giorni perduti. Non sono riusciti a piegare gli animi le levatacce, le 12 e più ore di guida, le strade sempre meno affidabili, l’incertezza di sapere se si sarebbe riusciti ad arrivare nonostante gli sforzi e, in caso negativo, dove si sarebbe riusciti a dormire o le dormite in posti improbabili come chiese o stazioni di polizia. Le vie di terra battuta del deserto namibiano hanno accolto un contingente di uomini e donne motivato, indomito, temerario che iniziava a capire cosa fosse l’Africa, che iniziava a farsi le ossa, ma anche a rifarsi l’anima, lo sguardo, l’olfatto. Il deserto della Namibia ci ha ricevuti con i suoi vastissimi orizzonti, i suoi colori irripetibili e il suo freddo inatteso e inesorabile. Un freddo che tutti ancora ricordano e ricorderanno forse per tutta la vita. Allo stesso modo le strade dell’Angola sono tatuate sulla pelle, segnate sulle ossa di tutti. Vie divenute sempre meno reali, oniriche nel loro essere distrutte, dissestate, inesistenti, disseminate ancora dai residuati bellici di una guerra civile durata 47 anni. Ma era l’Africa. Quella vera. Quella dalle mille sfumature paesaggistiche, dai molteplici villaggi di paglia e fango e dalle forti contraddizioni. L’Angola ha messo a dura prova nervi, fisico, mezzi, attrezzatura, ogni cosa. Tutti ciò che si sarebbe potuto rompere si è rotto. Tutto ciò che è stato possibile sistemare è stato sistemato alla meno peggio con gli utensili a disposizione. Ci ha stretto tra le sue braccia tra deserto, montagne e jungla per 17 giorni. Tanto ci è voluto per averne ragione. E nella nostra ragione in ogni caso ha vinto lei. Ha vinto lei costringendo ad un drastico e inevitabile dietro front. Ha vinto lei con 2500 km in più. I più bei chilometri che ognuno ricorda. Ha vinto l’Angola obbligando a lasciare indietro Luis, prima, e Riccardo, oltrepassati i suoi confini, per la malaria. Ha vinto lei instillando in tutto il gruppo la paura della malattia esplosa nonostante i test per ben due volte ci avessero dati per sani, Luis escluso. Ha vinto perché ha lasciato la voglia di tornare, di farsi catturare del tutto, di perdersi ancora sulle sue strade. Lo Zimbawe è stata la luce che ha guidato fuori dal tunnel delle difficoltà offrendoci sicuri ripari, percorsi lineari, tempi di percorrenza certi. Il Botswana e i suoi parchi ci hanno invece detto che l’avventura stava per giungere a conclusione e lo hanno fatto nel migliore dei modi con scenari mozzafiato e tutto ciò che dall’Africa ci si potrebbe aspettare.
Tuttavia il continente nero ha regalato qualcosa che forse neppure sa. Oppure lo sa perfettamente perché capita sempre così. Il viaggio che ognuno ha fatto dentro se stesso e la parte migliore di sé che ognuno ha donato agli altri. Doni che forse sono stati dei semplici specchi di quello che le genti d’Africa hanno trasmesso a tutti. Un riflesso di quello che in Europa chiamiamo umanità ma che in Africa si chiama semplicemente vita.

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