Phra Kru Ba Neua Chai e il monastero del Cavallo d’Oro

“La via dell’insegnamento del Dharma passa anche attraverso il combattimento e l’apprendimento di un arte marziale”. Questo asserto deve essere stato condiviso anche da Phra Kru Ba Neua Chai, campione di pugilato thailandese che, nel 1980, ha rinunciato a tutto, si è fatto ordinare monaco e ha fondato il monastero del Cavallo d’Oro, annidato sulle colline ammantate dalla nebbia a nord di Chiang Rai, vicino al confine tra la Thailandia e il Myanmar.


Ha trasformato quella che una volta era una foresta semi disabitata in un’area con recinti e pollai per dozzine di cavalli thailandesi e magnifici galli da combattimento.
Il monastero è anche diventata casa per numerosi ragazzini di diverse tribù delle colline limitrofe rimasti orfani, abbandonati o senza casa a causa degli spietati guerriglieri narcotrafficanti che contrabbandano eroina, oppio e metanfetamine nell’area, conosciuta nel mondo come il Triangolo d’Oro.
Nel monastero questi ragazzi sono ordinati come monaci novizi e imparano a leggere e a scrivere. L’abate gli insegna anche le scritture buddhiste, a cavalcare e la muay thai.


Questa la parte “nobile” del progetto. Accanto ce n’è un’altra che, se non meno nobile, certo solleva alcuni dubbi. Almeno a giudicare da alcuni “dettagli”.

La cerimonia settimanale di preghiera e accoglienza dei devoti inizia presto. È un giovedì mattina di un caldo mese di giugno. Il suono di un gong annuncia l’apertura della celebrazione. Alla spicciolata i pochi fedeli accorsi si radunano attorno ad una statua di Buddha posta nell’angolo di una improbabile piazzetta.

Sedie sono state poste attorno al perimetro. I fedeli si seggono e in silenzioso raccoglimento iniziano le proprie preghiere. Ancora suono di gong e campane percosse dal personale. Non sono monaci. Sono giovani dei villaggi del circondario o ospiti che aiutano i religiosi. In lontananza rumore di zoccoli segnala l’arrivo dei prelati.


A cavallo, coperti da tuniche marroni, sale da un declivio a sinistra della piazzetta un drappello di religiosi. A guidarli il più alto in carica, con tunica porpora, vice del fondatore del Monastero. Al passo i destrieri dei novizi si fermano in fila indiana mentre il monaco anziano si avvicina ai fedeli. Un cenno di saluto e un sorriso. Un microfono diffonde le litanie di preghiera. Il tutto non dura più di mezz’ora.

Nel corso del suo svolgimento la cerimonia ha previsto lo spargimento di acqua, che i pellegrini hanno precedentemente acquistato dagli stessi monaci, in segno di benevolenza e benedizione, sul pavimento di terra e cemento.


L’officiante non versa il liquido per terra come i devoti, ma lo raccoglie all’interno di un secchio. Il rito si chiude con quella che potrebbe essere letta come una benedizione generale. Terminata la funzione si portano sull’altopiano anche gli altri monaci. I pellegrini si alzano e si dirigono verso di loro con diversi doni tra le mani. È il momento di rottura.
In questo istante la mentalità occidentale sale in cattedra e inizia a notare delle falle o delle incongruenze che per propri limiti non riesce a spiegare.

I fedeli porgono ai monaci, ancora a cavallo, doni di suppellettili, cibo e indumenti, precedentemente acquistate all’interno dello stesso monastero. Ma non basta. Il superiore effettua una nuova benedizione su alcuni monili, effigi raffiguranti il fondatore e stracci con disegni rituali, che distribuisce dietro versamento di un contributo. Ultimo atto della questua, offerta volontaria che gli stessi monaci più giovani e alcuni di quelli residenti all’interno del monastero versano.


Ora che il mantenimento di una struttura tanto ampia da comprendere al proprio interno stalle per l’allevamento dei cavalli, diversi edifici che accolgono i monaci, galli e altri animali, non costi poco non è difficile da evincere. Più difficile è riuscire a capire perché tutto quell’esborso di denaro se i monaci vivono già di questua, hanno risorse sufficienti per mantenere i cavalli avendo a disposizione dei campi, tagliano legna che poi vanno a rivendere.

La stessa procedura di ripete di settimana in settimana affiancata da momenti simili che si svolgono negli altri villaggi.
Le domande nascono da sole e il dubbio di una religiosità esasperata ed edulcorata dalla spiritualità di fondo, rimane. Che l’oppio dei popoli non abbia confini culturali oltre che geografici e filosofici?

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